Chi merita un premio e chi va dietro la lavagna questa settimana in TOP12
Oggi la rubrichetta arriva un po’ in ritardo e me ne scuso. Del resto questa maledizione delle partite alla domenica (che obbligano a scrivere di lunedì quando uno avrebbe altro da fare…) prima o poi finirà e potremo tornare a ritmi redazionali un po’ meno complicati. Dunque, che ha detto questa diciassettesima giornata che sin da prima avevamo definito ordinaria? Niente che non si sapesse già, in effetti. Ci ha detto che Rovigo è una formidabile ed implacabile macchina da punti e che sarà ben difficile incepparla, che Calvisano, Petrarca e Valorugby le corricchiano dietro un po’ a scartamento ridotto e senza dare l’impressione di essere in grado di impensierirla troppo. Almeno al momento, più avanti si vedrà. Continua il cammino deprimente delle Fiamme Oro, la cui stagione non si può non definire deludente se a questo punto del campionato la squadra della Polizia è già fuori da qualunque obiettivo. Ma deludente è anche il campionato di Viadana: ora che sta inanellando buoni risultati, guidata in campo da quel fantastico giocatore che è Brian Ormson, non può non crescere il rammarico per quel che poteva essere e non è stato. Deludente speriamo non diventi il campionato di Mogliano, che tanto ci ha fatto piacevolmente stupire nel girone di andata, ma che ora sembra essersi un po’ adagiato in quella che si potrebbe definire una paciosa zona di comfort. Chi non può essere pacioso sono le due contendenti per l’ultimo posto ancora disponibile per la prossima annata: Verona e Valsu meritano entrambe un plauso per come vendono carissima la pelle anche contro squadre di rango superiore come ieri. E quindi, in una giornata ordinaria in cui nessuno merita troppo, né demerita più di quanto già demeritato (e scappellottato) mi vado a cercare un paio di storie individuali, per premiarne una e redarguirne un’altra.
La carezza della settimana va a: Denis Majstorovic, che c’è sempre stato, ma non l’hanno mai visto
Ha fatto due mete anche ieri, meritandosi come spesso gli accade il titolo di Mom. Denis è un cavallo, anzi un cavallone, di razza. Uno che corre, che ha mani, fisico e testa. Che mena e che sfonda, che segna e fa segnare. Uno così lo vorrebbero tutti in squadra; c’è stato un tempo, quando magari le cose non giravano al meglio, che lo schema d’attacco di Rovigo era “palla a Denis e che ci pensi lui”. E lui ci pensava sempre, come continua a pensarci adesso, anche se da quelle parti adesso il gioco fluisce che è una meraviglia. Ma la storia di questo ragazzo croato, arrivato in Italia in fuga dall’orribile conflitto dei Balcani ed ora italianissimo, anche se molti non lo sanno, non è iniziata sul Delta polesano quando ci arrivò cinque anni fa. Denis era già forte prima che patron Zambelli, con quella faccia da contadino sveglio ed il portafoglio da industriale appassionato, approfittasse del fallimento di Prato per trasformare una squadra di mezza classifica in una top del campionato. Già coi compianti Cavalieri, quando faceva impazzire lo speaker del Chersoni (allergico ai nomi complicati come il suo), era uno dei centri più forti del nostro rugby. Ed aveva 22 anni o giù di lì. E’ sempre stato uno dei migliori del nostro campionato. La domanda, allora, sorge spontanea: se lui c’è sempre stato, ed è sempre stato uno dei più forti, com’è che nessuno l’ha mai veramente “visto”? Certo, qualche sporadica apparizione come permit la fece al tempo degli Aironi, ma poi, chissà perché, ci si dimenticò di questo ragazzo che non smise mai di essere uno dei prospetti più interessanti del nostro movimento. Ora forse è tardi, ma non posso che augurare a Denis di avere tutte le soddisfazioni che la miopia di molti gli ha negato.
Lo scappellotto della settimana va a: Gabriele Venditti, mò je faccio er cucchiaio
Era il 29 giugno del 2000 e Gabriele Venditti aveva appena tre anni quando un suo illustre concittadino, in una drammatica partita di calcio finita ai rigori, fece precedere il suo turno dalla ormai mitologica dichiarazione di intenti “Mò je faccio er cucchiaio”. Andò bene quella volta, soprattutto perché il concittadino di Venditti alla spocchia e alla sfrontatezza abbinava una classe purissima e poteva permettersi questo ed altro. Anche il nostro Vendittone è stato dotato dalla natura generosa e dai geni benevoli dei suoi progenitori, di mezzi oltre ogni misura. E di misure bisogna parlare perché il nostro difficilmente sta in un’inquadratura senza grandangolo: alto, grosso, forte; e per di più dotato di tecnica individuale di tutto rispetto. A 22 anni, con alle spalle qualche “acciacco” e non solo di natura fisica (ma sorvoliamo) è senza dubbio uno dei giovani sul cui futuro il nostro rugby scommette di più. Chi scrive è un suo grande ammiratore e tifoso. Ma non incondizionato. Cosa manca a questo straordinario ragazzo che avrebbe tutto per diventare uno dei crack più clamorosi del rugby italiano? Nella partita di ieri lo si è visto assai bene. Ieri Gabriele ha avuto varie occasioni per dimostrare il proprio valore, ma le ha sprecate tutte. Se gli fossi stato vicino nei momenti in cui poi ha fatto delle cose per cui bisognerebbe prenderlo per una recchia probabilmente gli avrei sentito dire “Mò je faccio er cucchiaio”. Una frase che non si può pronunciare impunemente. Caro Gabriele, non è strettamente necessario che ogni passaggio sia un cucchiaio. Si può passare la palla anche normalmente. Gabriele Venditti sembra dominato da un demone che lo obbliga a colorare di eccezionalità qualunque gesto, qualunque azione. Come se dovesse sempre fare il cucchiaio. I cucchiai si fanno quando servono e la loro utilità non è quella di dimostrare a tutti che sei il più bravo. Perché sei il più bravo quando fai le cose che servono quando servono. Sono sicuro che lo imparerai e diventerai un grande campione. Uno che fa i cucchiai a tempo debito. E che li fa bene.