Cymru e la storia del Tîm rygbi’r undeb cenedlaethol Cymru
Cymru è il musicale e misterioso nome del Galles nella lingua gaelica di ceppo brittonico parlata dai suoi abitanti. Si può quasi dire che Cymru e rygbi, Galles e rugby, siano sinonimi: nel paese del Y Ddraig Goch, il mitologico simbolo che ne adorna la splendida bandiera, lo sport ovale è quasi una religione, parte dell’identità stessa di questo fiero e vessato popolo. Lo storico gallese John Bale afferma che “il rugby è tipicamente gallese”, mentre David Andrews sostiene che “per la coscienza popolare il rugby è gallese quanto le miniere di carbone, i cori maschili, How Green Was My Valley, Dylan Thomas e Tom Jones”. Il suo struggente inno Hen Wlad Fy Nadhau, la terra dei miei padri, cantato in coro da tutto lo stadio di Cardiff, anzi di Caerdydd, quando giocano i Dragoni è una delle sensazioni più intense che sia possibile provare e riesce a mettere la pelle d’oca a chiunque lo ascolti ed abbia un cuore. Per dire cosa significhi giocare in Galles nel mondo di Ovalia basta citare ciò che sostiene il grande ex All Black Ian Kirkpatrick: “Non si può battere il Galles in Galles. Al massimo si possono segnare più punti di loro “. Ma il rugby gallese non è solo poesia, bensì forza di una piccola grande potenza ovale: nella bacheca dei Dragoni ci sono ben 37 tornei continentali vinti nelle varie declinazioni numeriche e la partecipazione a tutte le edizioni di Coppa del Mondo, con un terzo posto finale come miglior risultato. Ben 10 giocatori gallesi fanno parte dell’International rugby Hall of Fame ed uno di essi, l’inarrivabile Gareth Edwards (fra i nomi più citati quando si prova a rispondere alla domanda su chi sia stato il giocatore più forte di tutti i tempi) è incluso anche nella World rugby Hall of Fame. Sabato la nostra nazionale va a sfidare questa squadra, somma di tutte le generazioni precedenti ed anima di una nazione, una squadra che anche quest’anno è arrivata a soli 4 punti dalla possibilità di tornare in cima all’Europa e che vorrà congedarsi degnamente da questo torneo e dal suo orgoglioso ed innamorato popolo. Proviamo, allora, a percorrere la lunga e gloriosa storia di un Paese e del suo rugby.
Gli albori
Inizia presto la storia del rugby gallese, intorno al 1850, quando il reverendo Rowland Williams, vicepreside del St. David college di Lampeter lo introduce come disciplina scolastica. Ci vogliono, però, circa 20 anni perché nel 1871 venga fondata, a Neath, la prima squadra di club, e dieci anni dopo, nel 1881, la WRU, la Welsh Rugby Union che, il 19 gennaio del 1881, mette in campo la prima nazionale gallese: la sfida si svolge a Blackheat, un sobborgo di Londra, contro l’Inghilterra ed è una fragorosa sconfitta per 30-0. Due anni dopo, nel 1883, la squadra partecipò alla prima edizione dell’Home Nations Championship senza vincere nemmeno un incontro. Nei primi anni, in effetti, quella del Galles, come quella dell’Irlanda, è una squadra decisamente più debole di quelle di Scozia e Inghilterra, ma le cose cominciano a cambiare intorno al 1890. Se l’Inghilterra aveva inventato il rugby tout court si può a ragion veduta dire che fu il Galles a reinventarlo attorno a quest’epoca dandogli la forma che ancora oggi ha. I gallesi, infatti, introdussero un nuovo tipo di formazione detta dei “quattro trequarti”, con 8 avanti in luogo dei consueti (per allora) 9. Il gioco gallese aveva, con questa novità, un’imprevedibilità ed un’efficacia che sorprendeva gli avversari e se ne videro i primi frutti con la conquista del torneo nel 1893 corredato da triple crown, il grande slam dell’epoca tutta britannica. Le altre formazioni, ben presto, imitarono il modo di schierarsi in campo dei gallesi che quindi possono dirsi gli inventori del rugby moderno. Dal 1900 in poi i Dragoni imposero un vero e proprio dominio, fatto di 5 trionfi consecutivi; al termine di questa epopea i gallesi sfidarono per la prima volta gli All Blacks, i mitici Originals, in una partita divenuta vera e propria leggenda e alla quale si riferisce la locandina che vediamo sopra. Si giocava all’Arms Park di Cardiff e gli oceanici vi arrivarono dopo aver spazzato via le altre 3 britanniche. Davanti a 47.000 spettatori i neozelandesi eseguirono la loro Haka, cui il pubblico unanime rispose intonando Hen Wlad Fy Nadhau: fu quella la prima volta in cui un inno nazionale venne cantato in una manifestazione sportiva. La partita fu tesa e bellissima; l’ala gallese Teddy Morgan segnò la meta che fissò il punteggio sul 3-0 per i padroni di casa e che determinò l’unica sconfitta su 35 partite dei tuttineri in quel mitico tour. Ma durante il match il pilone neozelandese Bob Deans dichiarò di aver segnato una meta, ma di essere stato trascinato dietro la linea prima dell’arrivo dell’arbitro. Questi non concesse la meta e decise, al contrario, una mischia chiusa a favore della nazionale di casa. Il risultato non cambiò più fino alla fine e il Galles si impose 3-0. Com’era giusto allora (e come dovrebbe tuttora essere) Deans non protestò per quella decisione e non ne parlò più; leggenda vuole che, molti anni dopo, sul letto di morte l’ex pilone davanti a tutti i suoi cari riuniti ebbe a dire una sola cosa: “Quella meta era valida”. L’anno successivo all’impresa contro gli All Blacks il Galles rivinse il Championship ed incontrò le altre formazioni downunder, perdendo 11-0 contro il Sudafrica e battendo l’Australia per 9-6. Altra vittoria del 4 Nazioni arrivò nel 1909 e, l’anno successivo, con l’arrivo della Francia, il Galles vinse anche la prima storica edizione del neonato 5 Nazioni, bissata nel 1911 addirittura con grande slam. Nel 1914, poi, l’attività internazionale fu sospesa per la Grande Guerra.
Il primo dopoguerra
L’attività internazionale riprese nel 1920 e diede il via ad un periodo di grande declino per il rugby gallese: il Paese viveva una profonda e grave crisi economica. Oltre mezzo milione di persone di questa piccola nazione dovettero emigrare e anche il rugby fu impoverito dall’esodo di molti giocatori verso il rugby professionistico a 13, assai più remunerativo. In questo periodo, a conferma della gravità della situazione, la nazionale disputò 42 incontri vincendone solo 17. Nel 1928 arrivò addirittura una sconfitta contro la Francia, allora squadra debolissima tanto da essere considerata dai britannici alla stregua di una vittima sacrificale: whipping boys venivano sarcasticamente definiti i transalpini. Si dovettero attendere gli anni ’30 e condizioni economiche migliorate (in fondo è vero che rugby gallese e vita dei gallesi sono cose strettamente connesse: per questo il rugby gallese è così identitario) per assistere ad una graduale rinascita della squadra. Nel 1931 si tornò a vincere la rassegna continentale e due anni dopo la squadra, capitanata dal leggendario Watcyn Thomas (foto sopra) violò il campo di Twickenham battendo per la prima volta gli inglesi a casa loro. Il 21 dicembre 1935, 30 anni dopo la leggendaria partita contro gli Originals, i Dragoni batterono nuovamente gli All Blacks per 13-12 nel match che vide l’esordio di Haydn Tanner che sarà capitano fino al 1949. Anche durante la seconda Guerra Mondiale, nonostante lo stop dell’attività internazionale, la nazionale gallese giocò un match di beneficenza contro l’Inghilterra a sostegno della Croce Rossa nel 1940 perdendo per 18-9.
Il secondo dopoguerra

Già nel 1946, a guerra appena conclusa, il Galles si riaffacciò al rugby sfidando una rappresentativa militare neozelandese che si impose per 11-3 e, l’anno successivo, si presentò alla prima edizione postbellica del rinato 5 Nazioni vincendolo a pari merito con gli inglesi. Dopo un paio di edizioni sottotono nel 1950 arrivò il primo grande slam dopo quello del lontano 1911, bissato nel 1952. Nel 1953 i gallesi batterono nuovamente gli All Blacks per 13-8. Nel 1954 l’Arms Park, che già occasionalmente aveva ospitato la nazionale, ma che non ne era la casa ufficiale, fu dichiarato stadio casalingo dei Dragoni e vide, nel 1956, la sua prima vittoria del torneo continentale. Seguirono anni mediocri sino al 1964 che vide due eventi: il ritorno alla vittoria, pur se a pari merito con la Scozia, ed il primo tour downunder che si svolse principalmente in Sudafrica. Gli esiti del confronto col rugby di laggiù furono assai deludenti, tanto da far dire al presidente della federazione Davies parole assai amare, ma costruttive: “risulta evidente, in base all’esperienza del tour sudafricano, che in Galles ci vuole un atteggiamento più propositivo verso il gioco… I giocatori devono essere preparati a imparare, anzi a reimparare, fino alla loro assoluta padronanza, i fondamentali del rugby.” Queste parole non furono vuote aspirazioni di circostanza: fu istituito il WRU coaching committee con il compito di coordinare e migliorare la preparazione degli allenatori e Ray Williams, nel 1967, fu nominato Coaching Organiser: furono le premesse seminative per la più grande epopea della storia del rugby gallese, di cui Williams, che vediamo sopra, fu sostanzialmente uno dei padri.
La golden age del rugby gallese
Il decennio “abbondante” che inizia alla fine dei ’60 e si spinge ai primi anni ’80 fu un’epoca di sfolgorante forza e bellezza per il rugby gallese. Fiorì una generazione ineguagliabile di meravigliosi fuoriclasse che giocò il rugby più bello e vincente mai visto prima e dopo. Inizia nel 1969 questa meravigliosa cavalcata con la conquista del 5 Nazioni e della triple crown. L’anno successivo arriva un’altra vittoria in coabitazione con la Francia e nel 1971 la squadra che vediamo ritratta sopra ottenne il grande slam. Era una squadra incredibile fatta di uomini formidabili ed indistruttibili: il torneo fu dominato schierando in tutto solo 16 uomini. Basta solo citare alcuni nomi per entrare in piena leggenda: Gareth Edwards, Barry John, J.P.R. Williams, Gerald Davies, John Taylor. Proprio Davies e Taylor furono indimenticabili protagonisti della famosissima vittoria contro la Scozia a Murrayfield: la Scozia stava vincendo, ma all’ultimo minuto Davies segnò una meta in bandiera che ridusse lo svantaggio ad un punto. Da posizione impossibile John Taylor (un flanker!) andò alla trasformazione e ribaltò il punteggio dando ai Dragoni la vittoria per 19-18. La stampa dell’epoca, giocando sul duplice significato del termine “conversion” scrisse che si era trattato della più sensazionale conversione dall’epoca di San Paolo! La nazionale gallese di quell’anno fu trasferita quasi al completo nei Lions che furono protagonisti di un leggendario e vittorioso tour in Sudafrica: più che britannici, gallesi quei leoni. Dopo il torneo mai concluso del 1972 causa disordini politici in Irlanda, nel ’73 si verificò l’incredibile ed unico caso di vittoria di tutte le cinque squadre del torneo a pari merito, mentre l’anno successivo la forza dei Dragoni si scaricò come un uragano sui malcapitati Wallabies, travolti con un perentorio 24-0. Ma le vittorie continuarono a fioccare: i Dragoni incamerarono anche i tornei di ’75, ’76 e ’78, edizione dopo la quale lasciarono la nazionale due giocatori leggendari come Gareth Edwards e Phil Bennett. Nello stesso anno si svolse una discussa e famosa partita contro gli All Blacks che vinsero per 13-12 sfruttando una contestatissima punizione a tempo quasi scaduto: il seconda linea dei tuttineri Andy Haden finse di aver subito fallo traendo in inganno l’arbitro. Quindici anni dopo, in occasione di un altro incontro fra le due squadre fu proprio Haden a rivelare di aver simulato e di aver architettato lo stratagemma insieme al compagno Frank Oliver. La delusione non impedì ai formidabili campioni gallesi di continuare a dominare la scena e vincere i tornei del ’79 e ’80, che furono sostanzialmente il canto del cigno di quella meravigliosa ed indimenticabile epopea.
Gli anni del declino e la rinascita
La fine degli anni ’70 portò via la favola della squadra più bella di sempre: era finita l’era del vino e delle rose per lasciare il posto ad una generazione minore che si inoltrò in un’epoca di mesto e mediocre declino. Nei primi anni ’80 il Galles è una comparsa che vince sporadicamente qualche partita ogni tanto e che stenta a battere persino il Giappone, capace di uscire dall’Arms Park con soli 5 punti di scarto nel 1983. Qualcosa di meglio si vide con la partecipazione alla Coppa del Mondo del 1987 in cui i Dragoni eliminarono l’Inghilterra ai quarti per poi cedere ai futuri campioni All Blacks in semifinale; contro ogni pronostico nella finale di consolazione i gallesi prevalsero sui favoriti australiani. Quel segnale sembrava non essere isolato, perché nell’edizione del 5 Nazioni 1988, pur non vincendo il torneo, il Galles fece propria la triple crown, ma nel 1990, quando ormai tutti i meravigliosi campioni del passato avevano lasciato, arrivò un umiliante whitewash che fu evitato l’anno successivo solo grazie ad un misero pareggio contro un’Irlanda altrettanto in crisi. Il crollo definitivo si ebbe nell’edizione inglese della Coppa del Mondo in cui il Galles si fermò al girone di qualificazione soprattutto a causa di un’imprevedibile sconfitta contro Samoa. Dopo altri anni mediocri giunse, del tutto inattesa, una vittoria nel 5 Nazioni del 1994, che mostrò tutta la sua casualità l’anno successivo, nell’edizione sudafricana della Coppa del Mondo in cui arrivò un’altra eliminazione al primo turno. L’allora ct Alex Evans fu sostituito da Ken Bowring, che fu il primo allenatore professionista della storia gallese. Bowring, in realtà, durò poco e vinse pochissimo, anzi, perse moltissimo: un’umiliante sconfitta casalinga contro la Francia per 51-0 nel torneo del 1998 ne determinò la cacciata ed al suo posto arrivò uno straniero, il neozelandese Graham Henry (foto sopra) un tecnico che avrà modo di farsi conoscere parecchio in futuro. L’arrivo di Henry, che verrà definito “The great Redemeer” dagli entusiasti media gallesi e l’avvento del professionismo, che convinse molti giocatori che erano passati al cugino ricco a 13 a tornare al rugby union, determinarono una svolta positiva per le sorti dell’ovale gallese. Henry guidò i Dragoni a 10 vittorie consecutive, culminate con la vittoria-capolavoro contro gli inglesi nel 1999 nell’insolita cornice dello stadio di Wembley: un’epico trionfo per 32-31 che tolse la vittoria del 5 Nazioni agli odiati avversari per consegnarla ai cugini scozzesi. Si giocò a Wembley, come detto, ma la partita era casalinga per i gallesi: a Cardiff, infatti, stava venendo ultimata la costruzione della nuova casa dei Dragoni, lo Stadiwm y Mileniwm perchè in quello stesso anno il Galles ospitò la Coppa del Mondo riuscendo finalmente a superare il primo turno, ma incappando ai quarti nei fortissimi australiani che vinsero quell’edizione.
Il nuovo millennio
Nel 2002, dopo un paio di stagioni altalenanti, Graham Henry lasciò la panchina al suo assistente e connazionale Steve Hansen: una staffetta che si ripeterà qualche anno dopo in altri lidi. L’avvento di Hansen coincise con una serie di sconfitte che portò ad una innovazione epocale nella storia del rugby gallese, simile per importanza a quella di cui avevamo parlato alla fine degli anni ’60 e che fu foriera di grandi successi. Ebbe inizio la cosidetta regional era con la creazione di quattro franchigie espressione delle quattro grandi aree territoriali del rugby gallese: Cardiff, Llanelli, Newport e Swansea che parteciperanno alla celtic league con le omologhe irlandesi e scozzesi. Nella Coppa del Mondo 2003 il Galles superò nuovamente la fase a gironi, ma anche stavolta ai quarti incappò nella squadra destinata a conquistare il titolo, vale a dire l’Inghilterra. Ma nel 2005, guidato da Mike Ruddock, il Galles conquistò il suo primo 6 Nazioni; decisiva in quell’edizione fu la vittoria casalinga contro l’Inghilterra per 11-9 grazie ad un piazzato da lunghissima distanza realizzato dal talentuoso Gavin Henson nei minuti finali; nell’ultima giornata del torneo, a Cardiff contro l’Irlanda, arrivò la vittoria che sancì anche il grande slam. Nel 2006 i risultati non furono altrettanto incoraggianti, anche a causa delle improvvise dimissioni arrivate a metà torneo di Ruddock per motivi familiari, che lasciarono la squadra disorientata. Alla guida della squadra arrivò Gareth Jenkins che la condusse alla Coppa del Mondo 2007 in cui un’inattesa sconfitta contro le Fiji precluse ai Dragoni l’accesso ai quarti. L’eliminazione costò il posto a Jenkins e aprì l’era attuale sotto la sapiente e vittoriosa guida del neozelandese Warren Gatland che vediamo nella foto sopra. Subito il nuovo tecnico portò la squadra al grande slam nel 6 Nazioni 2008. Dopo buone stagioni nel 2009 e 2010, Gatland portò i gallesi in semifinale alla Coppa del Mondo 2011 dove furono sconfitti dalla Francia per un solo punto (9-8) in una partita resa famosa dal cartellino rosso dopo pochi minuti a Sam Warburton. Nonostante l’inferiorità numerica gli uomini di Gatland giocarono una partita coraggiosa ed efficace sfiorando la vittoria: a pochissimo dalla fine una piazzato da lunghissima distanza di Halfpenny mancò di pochissimo l’obiettivo e lo storico approdo in finale. Nella successiva finale per il terzo posto la vittoria andò all’Australia per 21-18. I Dragoni si rifecero l’anno successivo con un grande slam nel 6 Nazioni e si riconfermarono campioni anche nel 2013 e siamo quasi ai giorni nostri. Nella recente RWC inglese il Galles, inserito nel girone della morte con Australia ed Inghilterra, sbancò Twickenham eliminando i padroni di casa che realizzarono il poco ambito record di unica squadra a non superare il turno eliminatorio in un’edizione casalinga. Nell’attuale 6 Nazioni il Galles ha sfiorato un’altra vittoria a Twickenham soccombendo per soli 4 punti. Ora aspetta noi per congedarsi da questa edizione.
jpr