Un bilancio ragionato e non consolatorio dell’avventura azzurra al mondiale giapponese
E’ finita, magari non nel modo che avremmo sperato, cioè sul campo e dopo una onorevole prestazione contro la squadra-feticcio del nostro sport, ma è comunque finita. E, tutto sommato, il venir meno per cause di forza maggiore del capitolo finale toglie probabilmente poco al bilancio che dobbiamo provare a trarre da questa partecipazione. Proverò, perciò, a dare un giudizio, ovviamente soggettivo e quindi criticabilissimo, di come è andata, cercando di articolarlo secondo vari parametri che meritano ciascuno una specifica argomentazione.
I RISULTATI
Poiché pur con tutte le sue particolarità anche il rugby è uno sport, dai risultati non è lecito prescindere, quindi è giusto prendere in considerazione innanzitutto il riscontro dei tabellini. Sin dal giorno in cui vennero resi noti i sorteggi chiunque avrebbe potuto immaginare come sarebbe andata a finire: avremmo vinto facilmente e senza particolare soddisfazione due partite non perdibili ed avremmo perso largamente e senza particolare rammarico due partite non vincibili. Il fatto che l’ultima non si sia giocata cambia poco, anzi nulla. Proprio il fatto di partire da questa logica consapevolezza mi ha fatto approcciare il mondiale senza alcuna illusione sulle nostre possibilità, ragion per cui posso dire di accogliere i risultati senza alcuna delusione. Nulla da rimproverare da questo punto di vista. Vale la pena, però, trarre dalla conferma sul campo di previsioni scontate una forse non piacevole conclusione: noi siamo questi. Siamo una Tier 1 di nome, perché partecipiamo al 6N, ma non lo siamo nei fatti. Se devo definire cosa siamo in base ai risultati dirò che l’Italia è una sorta di cartina di tornasole del rugby mondiale che World Rugby potrebbe usare al posto del ranking per stabilire chi sta sopra e chi sta sotto: l’Italia perde sempre con quelle che sono vere Tier 1 e vince sempre con quelle che sono Tier 2 o 3, come gli avversari che ci è capitato di battere in Giappone. La nostra partecipazione al 6N, che ci rende Tier1, irrinunciabile per tutta una somma di motivi, è però paragonabile a quella di chi avendo vinto una specie di raccolta a premi partecipi ad una crociera di gran lusso per ricchi: siamo lì con loro, facciamo le stesse cose che fanno loro, ma non siamo come loro. E loro lo sanno. Forse è bene che lo sappiamo anche noi, che capiamo bene cosa siamo. Al momento, e chissà per quanto ancora (magari sempre, chi lo sa) le uniche squadre con cui possiamo giocare partite “vere”, cioè in cui il risultato sia davvero in discussione, sono il Giappone (che in questo momento comunque ci è largamente superiore) e le isolane: con qualunque altro avversario abbiamo solo indolori sconfitte certe o insapori vittorie altrettanto certe. Perché questa situazione cambi in meglio dovrebbe verificarsi una sorta di condizione diabolica: non ci basterà “migliorare”, ma dovremo farlo più di quanto faranno le altre Tier 1, perché solo progredendo più di loro potremmo ridurre le distanze. E realisticamente non mi sembra una cosa possibile. Anzi, al momento mi sembra più probabile che chi è dietro di noi ci avvicini piuttosto che noi avviciniamo chi ci sta davanti.
IL GIOCO
Sul piano del gioco sinceramente l’Italia non ha mostrato grandissime cose. Abbiamo avuto la conferma di una squadra che soffre e molto in fase difensiva e che sul piano offensivo, quando incontra avversari di alto livello, trova con grandissima difficoltà l’avanzamento, sia per carenze di tipo “ponderale” che per povertà di skills dei nostri giocatori che per mancanza di soluzioni tattiche veramente sfidanti per la linea avversaria. Contro la Namibia la difesa è sembrata svagata e attendista, riuscendo a prendere ben tre mete in prima fase da un’avversaria davvero di modestissimo livello; un po’ meglio è andata col Canada. In attacco abbiamo segnato abbastanza nelle fasi finali dei primi due match: un po’ come capita ai nostri avversari Tier 1 quando allargano il gap nel finale puntando sul nostro calo. Un discorso a parte meritano le scelte di O’Sé per la partita con i Bokke, partita caricata per chissà quale motivo di aspettative irrealistiche sia dallo staff azzurro che dai tifosi. La formazione scelta per quel match mi ha davvero molto sorpreso in negativo: si è scelta una linea arretrata di soli centri ed una panchina con 6 avanti. In pratica si è deciso di giocare al gioco preferito degli avversari con mezzi inferiori ai loro: una scelta francamente suicida. Sino al momento della follia di Lovotti e Quaglio il gap non si era ancora allargato troppo (anche se essere sotto di 2 break non corrisponde molto all’idea di partita “in gioco”) ed il fattaccio ha un po’ falsato quello che è successo dopo. Ciò non toglie che ad avviso (personalissimo) di chi scrive a forza di giocarcela a sportellate con gente grossa il triplo saremmo crollati di brutto, forse anche peggio di come è andata. La superiorità numerica ha un po’ tranquillizzato i nostri avversari che sapevano che non avrebbero avuto bisogno di spingere più del necessario per portare a casa ciò che interessava loro davvero. Riassumendo le idee non sono sembrate chiarissime: emblema di questa confusione la strampalata posizione di Hayward nella partita col Sudafrica: non ha fatto il centro, non ha fatto il secondo distributore, in pratica non si è capito cosa ha fatto, né cosa O’Sé gli avesse chiesto di fare. E’ sembrata una trovata improvvisata, una scelta estemporanea; quasi una ricerca della botta di fortuna. E non è un mondiale l’occasione in cui fare scelte estemporanee.
GLI UOMINI
Un po’ (un pochino) meglio vanno le cose se andiamo ad esaminare le prove individuali dei nostri ragazzi. Alcuni di loro hanno mostrato di essere ad un livello soddisfacente, altri meno, altri ancora per niente. Qualcuno, purtroppo, non più. Buone cose hanno fatto vedere Ruzza, Negri, Steyn, Polledri, Budd, Braley e in qualche misura anche Allan, giocatore per cui non ho mai avuto particolare predilezione, ma del quale non si possono non riconoscere i miglioramenti e la maturazione. Certo un’osservazione sorge spontanea rileggendo il breve elenco di cui sopra: a parte Federico Ruzza (che, per la verità, ha giocato poco e ha dato il meglio contro l’avversario più “scarso”) tutti gli altri sono equiparati o non di formazione italiana. Non interessa qua la polemica sulla giustezza o meno di schierare questi giocatori, ma solo la considerazione che i nostri migliori non li abbiamo “costruiti” noi, se non in minima parte. Il che chiama in causa una valutazione sulla nostra capacità di “produrre” giocatori per l’alto livello. Volendo essere ottimisti, anzi molto ottimisti, occorre dire che il lavoro è ancora all’inizio e forse se ne vedranno i frutti in futuro. Per il momento gli unici giocatori azzurri che potrebbero trovare un posto nel roster (anche se probabilmente non in campo) di formazioni Tier 1 sono quelli di cui ho parlato. Qualcosa di buono hanno dato anche Riccioni e Bellini: ecco, quella è tutta roba nostra e, forse, in condizioni migliori (e con un recupero meno frettoloso) anche Minozzi avrebbe potuto farci rivedere le qualità che sappiamo può avere. Per il resto francamente nessuno dei nostri mi sembra aver particolarmente brillato e mi fermo qui.
IL COACH
Mentre scrivo ancora non si sa se Conchuir O’Sé resterà alla guida della nazionale anche per il futuro; certo è che siamo, come dopo ogni mondiale, alla fine di un ciclo e qualche valutazione complessiva è giusto darla. Anche volendo prescindere dai meri risultati (che però non sono ininfluenti e che tracciano un bilancio decisamente molto negativo) non mi sento in tutta franchezza di dare un voto molto alto a questa gestione. O’Sé è sicuramente un uomo molto appassionato del suo lavoro ed ha affrontato il compito con grande dedizione ed impegno; ha anche dimostrato di avere davvero a cuore le sorti ed il futuro del nostro movimento, anche se con linee ed idee che non mi trovano particolarmente concorde (ma non è qui che è il caso di parlarne). Rimane il fatto che raramente mi ha dato l’impressione di essere adatto al compito di “uomo di campo”, cioè di tecnico capace di preparare le partite, studiare soluzioni coerenti ed applicarle in campo. In una parola mi sembra molto più adatto ad un ruolo di supervisore organizzativo dell’attività di alto livello (ciò che comunemente si definisce Director of Rugby) che non a quello di CT. Come dicevo non so se O’Sé resterà, per quanto tempo, con quale staff (come si dividerà i compiti con Franco Smith, ad esempio, sempre che resti) o in che ruolo, ma, purtroppo, non posso ritenermi soddisfatto come tifoso della nazionale per i risultati del suo lavoro.
IN CONCLUSIONE
Tirando le somme mi si potrebbe rivolgere la solita domanda sul bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto: partendo dal fatto che il bicchiere è sempre comunque mezzo, forse vale più la pena interrogarsi sulla qualità del liquido che c’è dentro. Perché avere un bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto di Barbaresco Gaja non è la stessa cosa che averlo mezzo pieno o mezzo vuoto di Tavernello. Per restare nella metafora il nostro mondiale è stato un Lambrusco del discount: senza infamia e senza lode, ma che alla fine ti lascia un po’ a metà. Non puoi dire che sia malvagio, specie se non avevi aspettative particolari, ma puoi berlo solo con un panino o un trancio di pizza. Purtroppo per aspirare a piatti più pregiati serve un altro livello di qualità, ma quello non ce l’abbiamo. Quindi non sono scontento: mi aspettavo il Lambrusco e quello ho avuto. E adesso andiamo avanti che fra qualche mese si ricomincia col 6N e tocca lavare i bicchieri per il prossimo lambrusco.
UNA PICCOLA POSTILLA AMARA
Amara soprattutto perché mi renderà antipatico a molti. Non c’entra molto con il bilancio dell’avventura mondiale, o forse sì, perché ci dice qualcosa della nostra maturità sportiva come movimento, squadra, giocatori e anche tifosi. Come tutti sappiamo a causa del combinato disposto fra il tifone più devastante degli ultimi 60 anni in Giappone ed il regolamento di World Rugby non si è potuta disputare la partita conclusiva che ci avrebbe visto opposti agli Allblacks. Non mi interessa qui esprimere ipotesi sul risultato che assai probabilmente (per non dire certamente) avrebbe avuto quella partita, né sottacere il dispiacere per come sono andate le cose. Trovo però che la reazione ad un fatto ovvio come l’applicazione di un regolamento noto a tutti da tempo dimostri la nostra incapacità di essere sportivi fino in fondo. Fra i capisaldi dello sport c’è a mio avviso il fatto che se sei uno sportivo accetti le regole della competizione a cui partecipi, ti piacciano o no. Naturalmente puoi batterti perché in seguito vengano modificate se sbagliate (e queste secondo me lo sono), ma finchè ci sono le rispetti. Puoi dirti dispiaciuto, e questo è comprensibilissimo, ma lanciare accuse agli organizzatori, lamentare inesistenti disparità di trattamento o ancor peggio adombrare ipotesi complottistiche (se fosse servito ad altri…) denota secondo chi scrive una grande mancanza di cultura delle regole, che è alla base di ogni pratica sportiva. Ecco, la nostra mancanza di capacità di accettare il concetto per cui se c’è una regola la si rispetta mi sembra parte non piccola della nostra immaturità come movimento, né più né meno del livello del nostro gioco o del numero di giocatori di buon livello. Anche qui temo ci sia ancora molta strada da percorrere.