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Lacrime nella pioggia

Scritto da jpr

Malinconico saluto fra le lacrime e la pioggia di un territorista sconfitto

Domenica sera ho scritto il mio ultimo pezzo per il blog e la pagina FB di rugby.it commentando la finale scudetto fra Rovigo e Petrarca. Questo è un pezzo di saluto innanzitutto, ma anche un tentativo di analisi e contestualizzazione del medesimo. Roba lunghetta e noiosa, quindi capisco chi lascia perdere in quest’epoca in cui 10 righe sono considerate una lungaggine intollerabile. Negli ultimi anni ho seguito per questo blog e questa pagina FB il campionato domestico e la Nazionale. L’ho fatto solo per amore e mi è costato fatica, una fatica gratuita ripagata proprio e solo dall’amore. Ora è il momento di salutare. Saluto io così come ha salutato la mia squadra, il Rugby Calvisano, che negli ultimi 25 anni è stata un pezzo importante della mia vita e che continuerà ad esserlo ovunque sarà. Un evento che non è la causa del mio saluto, ma che è stata l’occasione che mi ha aiutato a focalizzare i pensieri a proposito di quello che sta accadendo nel nostro piccolo mondo ovale: spesso le cose che succedono, specie se ti fanno soffrire, ti aiutano a capire meglio dove ti trovi. Non è più il rugby del Calvisano e non è più nemmeno il mio e quindi penso di non aver più nulla da dire su di esso. E quando non si ha nulla da dire la cosa più saggia e rispettosa degli altri è smettere di parlare.

Un lungo confronto

In questi anni che hanno seguito la “scelta celtica” si sono confrontate sostanzialmente due tesi contrapposte sul nostro domestico, e, in ultima analisi, anche sulla struttura che il nostro movimento deve avere. Un confronto che oggi arriva ad un suo esito e che come tutti gli esiti vede un vincente ed uno sconfitto. Ed io faccio parte degli sconfitti. Si sono confrontate, dicevo, due posizioni opposte sul ruolo del campionato italiano, posizioni che io chiamo “territoristi” (T) e “nazionisti” (N): i secondi hanno vinto, anzi, stravinto.

Noi T siamo gente semplice e terra terra: pensavamo che lo scopo di un “campionato” fosse quello di designare un “campione”. Pensavamo, per meglio dire, che in un campionato le squadre partecipassero per raggiungere i propri obiettivi agonistici e che quegli obiettivi fossero ragione e motivazione del loro agire. Succede così nei campionati di qualunque sport di squadra: nel calcio, nel volley, nel basket, nel tamburello, nelle bocce, persino a scopone scientifico. Si fa una squadra per competere con le altre avendo come fine ultimo quello di prevalere. L’agonismo, insomma, che altro è? Quindi l’idea di noi T era piuttosto ingenua e banale se vogliamo: uno fonda una squadra nel suo territorio e cerca di farla crescere per arrivare con fatica ed impegno a conquistare sul campo via via obiettivi sempre più ambiziosi per arrivare più in alto possibile. In quel modo la squadra diventa patrimonio di un territorio che la “vive” giornalmente, la “tocca” nella sua vita quotidiana e partecipa alle sue gioie ed ai suoi dolori identificandosi con essa. Nell’ambito di questa competizione, ovviamente, si formano giocatori che saranno selezionati per far parte della Nazionale, la quale sarà espressione di questo “humus” di territori e sarà sentita propria da essi. Ma formare giocatori per la nazionale sarà una conseguenza di tutta questa attività, non lo scopo e fine ultimo.

Gli N la pensano in maniera diametralmente opposta. Per loro la NAZIONALE è una specie di divinità che deve stare in cima a tutto e per la quale tutto deve essere sacrificato e messo a disposizione. Nella loro visione la NAZIONALE è una specie di imperatore feudale del quale le franchigie sono i vassalli e tutto il resto, a partire dal campionato, servitù della gleba. Per gli N il campionato non ha una sua dignità agonistica e il titolo di campione nazionale non vale nulla, è la coppetta del nonno e delle salamelle. E dell’aborrito terzo tempo, rito deteriore e volgare che tiene in vita un retaggio dilettantistico e poco serio da considerare come una cosa da sfigati e poveracci. Per loro il campionato deve essere solo ed unicamente una specie di allevamento avente come unica funzione quella di produrre giocatori da fornire alla triade magica che sovrasta il movimento: i pilastri delle franchigie e il vertice divinizzato della NAZIONALE. Per la NAZIONALE tutto deve essere sacrificato. Anzi, nulla ha un senso se non è indirizzato a quel fine ultimo. Lo ha detto di recente, ad esempio, Marco Aloi, designato da Innocenti ad occuparsi del marketing del domestico: “Se il TOP10 non entra nella filiera che porta alla NAZIONALE è un campionato che non ha senso“. “Alzare il livello” è il loro mantra recitato come un rosario. Lo strumento più emblematico (ma non l’unico) di questa costruzione ideologica è quello dei permit players: giocatori intermittenti che una squadra può schierare o meno a seconda delle necessità e degli interessi di altri, cioè delle franchigie (e quindi di sua santità la NAZIONALE). Fa niente se così facendo la squadra A affronterà la squadra B con una formazione fortissima e la squadra C con una formazione molto meno forte falsando l’esito del torneo. Tanto il torneo non vale nulla e non serve a nulla se non per sua santità la NAZIONALE, quindi per parlar forbito chissenefrega.

La fine

La riforma dei campionati annunciata in maniera irrituale in una chiacchierata coi giornalisti dal disinvolto presidente Innocenti segna la fine del confronto. N ha vinto e T si arrende senza condizioni. La NAZIONALE sarà il rugby, le franchigie il suo territorio, e il campionato senza nome sarà l’allevamento con tanto di permit e senza dignità agonistica. Un allevamento oligarchico perché restringendolo a 8 (per ora e in attesa di altri “decessi”) si dovrebbe inverare il famoso mantra dell’“alzare il livello”: cioè meno squadre, ma più forti (forse). Un po’ come se si dicesse: accoppiamo tutti i morti di fame e togliamogli quel poco che hanno per darlo a pochi ricchi che così “alzeranno il loro livello”. Bel programma. Sotto di esso sarà discarica del non rugby e del terzo tempo. Visto che il presidente ed il suo guru del marketing sembrano incerti sul nome da dare a questo allevamento mi permetto di suggerirgliene uno coerente con l’impostazione che ad esso si vuole dare. Un’impostazione basata sui parametri economici e non sul merito sportivo (parole non mie, ma del capitano-presidente) in cui ci si impegna per un bene superiore ed esterno; e quindi direi che “Rotary” potrebbe andare…Un posto per gente ricca che fa beneficenza. Molto cool.

Noi T sconfitti

Abbiamo perso, ma non abbiamo perso oggi: semplicemente oggi abbiamo visto concretizzarsi una sconfitta iniziata anni fa quando il rugby scelse la via del professionismo. Una via seguendo la quale si arriva ad una sola conclusione: contano solo i soldi. La NAZIONALE e le franchigie producono soldi e quindi hanno diritto di fare del miserabile campionato italiano quel che meglio credono. E di cambiarne scopo ed anima strappandolo dal territorio e trapiantandolo nel proprio organigramma aziendale con la specifica funzione di “giocatorificio”. Il territorio vissuto non ha più senso, ha senso la NAZIONALE vista in TV o in un’episodica gita a Roma per il 6N. In quest’ottica si capisce, ad esempio, perché mai secondo gli N un tifoso del Capoterra o del Calvisano dovrebbero gioire e sentirsi coinvolti dai successi poniamo del Treviso che col loro territorio non ha nulla a che fare e magari dal loro territorio ha pure sottratto giocatori che lì non avevano sbocco. Perché quello sbocco ha bisogno di soldi che a Treviso ci sono e a Capoterra e Calvisano no. Che poi è un po’ come pretendere che un bracciante della Capitanata o un metalmeccanico di Settimo Torinese gioiscano perché il figlio di Benetton si compra uno yacht più grande…Del resto a nessuno verrebbe mai in mente di pretendere che un tifoso di Treviso gioisca per gli eventuali successi del Capoterra o del Calvisano, quindi non si capisce perché mai dovrebbe valere il contrario. Dev’essere quella inspiegabile convinzione tipica dei ricchi per cui i poveracci dovrebbero ricambiare con affetto l’indifferenza che i primi riservano loro. L’evoluzione infatti sta ridisegnando e restringendo il territorio in base al denaro: c’è territorio dove c’è denaro. E nel rugby degli N  il territorio che noi T avremmo voluto dal Passo Resia a Pantelleria per un vero campionato italiano degno di un paese di 60 milioni di abitanti e lungo da lassù a laggiù diventa sostanzialmente Veneto ed Emilia Romagna, che neanche a farlo apposta sono le regioni dei due soggetti, Innocenti e Poggiali, sul cui patto di potere è nata e si regge questa presidenza Fir. Le franchigie sono a Treviso e Parma, le semifinaliste del TOP10 sono due venete e due emiliane, gli “eventi fir” di quest’anno sono stati destinati a Verona (Coppa Italia), Piacenza (spareggio), Parma (finale scudetto) e Mogliano (finale scudetto femminile). La nazionale U18 gioca solo a Treviso, la U20 e la femminile solo a Parma. E anche la maggiore, tolti i match del 6N in cui il board storcerebbe il naso se si facessero al Payanini, dove ha giocato negli ultimi anni?

Saluti

Dunque un saluto affettuoso a tutti dopo questi anni. Il mio rugby non c’è più e nel tempo se ne perderà il ricordo. Di quei momenti, di quella passione, di quelle gioie, incazzature, feste e discussioni e, sì, terzi tempi non resterà nulla. Rubo le parole a qualcuno più bravo di me: E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. E’ tempo di morire.

O meno drammaticamente di lasciare posto ad altri più adatti ai tempi nuovi ed augurare loro il meglio.

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jpr