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Ritratto in grigio: il rugby costretto a specchiarsi nei possibili problemi del dopo-carriera

Scritto da Rugby.it

Due tristi vicende riguardanti due famosi campioni del recente passato hanno improvvisamente posto il rugby davanti al proprio quadro di Dorian Gray, un ritratto che mostra i problemi ai quali i forti, tonici e atletici rugbisti di oggi potrebbero andare incontro nel dopo-carriera. Problemi di ordine psichico e fisico.

Il primo caso drammatico è quello di Christophe Dominici, suicidatosi a fine novembre a 48 anni. In un’intervista che -scusate- non siamo riusciti a ritrovare un suo ex compagno di squadra ha detto: “Christophe era una sfera di energia, un giocatore estremamente intelligente e protettivo. Era piccolo fisicamente ma sapeva trascinare tutta la squadra e mi è stato molto d’aiuto quando io, più giovane di lui, sono entrato in squadra; ti aiutava con poche parole, cercando di non farlo apparire e sfuggendo qualsiasi ringraziamento. Cosa sia successo nella sua mente non lo so, ma so che per un rugbista professionista la fine della carriera è pericolosa: per anni ti abitui a vivere secondo certi ritmi, accudito e coccolato dal club, sotto i riflettori dei media e secondo una cadenza scandita da allenamenti e partite. Quando ho smesso ho pensato che me la sarei proprio goduta, che con i soldi guadagnati me ne sarei stato in panciolle tutto il giorno a non fare niente. Dopo due settimane mia moglie mi ha detto: ‘devi proprio trovarti qualcosa da fare’. Il fatto è che ero sperso, avevo tutta questa energia che fino a poco tempo prima trovava sfogo e appagamento negli allenamenti e ora di colpo non aveva più un fine e si accumulava e si ingolfava, con conseguenze negative sull’umore. E’ molto importante avere un piano B per il dopo-carriera agonistica, forse Christophe non ne ha trovato uno”.

Il secondo problema è di ordine sia fisico che psichico ed è stato portato alla luce in questi giorni da un’altra triste notizia: l’ex campione del mondo inglese Steve Thompson, 42 anni appena (foto sopra), soffre di demenza precoce e intende portare in giudizio World Rugby per i danni subìti. “Non ricordo neppure di aver vinto la Coppa del Mondo”, ha detto l’ex tallonatore dei tutti bianchi, che sollevò la Coppa nel 2003.
La prima reazione che tutti abbiamo di fronte a questo genere di storie è minimizzare: ognuno di noi conosce un sacco di veterani rugbisti, allegri e attivi nel club anche a tarda età, quello di Thompson dev’essere solo un caso sfortunato slegato dalla sua carriera rugbistica.
Un ottimo articolo del Guardian infrange però questa illusione: “secondo l’ultimo report, risalente al 2014, nel Regno Unito c’erano 1339 persone comprese nella fascia di età 30-44 che a quella data soffrivano di demenza –scrive il quotidiano inglese- Cioè lo 0.01% o, detto in altri termini, una persona su 9500. Se anche gli 11 casi conosciuti di ex rugbisti professionisti che soffrono di demenza fossero gli unici esistenti, cosa improbabile dato che siamo a conoscenza di altri 90 ex giocatori con sintomi riconducibili a tale disfunzione, essi rappresenterebbero circa lo 0.7% dei circa 1500 rugbisti inglesi e gallesi che hanno giocato ad alto livello dopo l’avvento del professionismo. Dunque, una percentuale settanta volte superiore a quella delle personi comuni”.

“Non ricordo neppure di essere stato in Australia per la Coppa del Mondo –racconta Steve Thompson- Vedo nei video un giocatore che mi assomiglia ma non ricordo nulla di quelle partite. Ci sono giorni nei quali è tutto ok e magari mi metto a giocare a calcio e altri nei quali mi ritrovo in agonia con un mal di testa che non mi permette neppure di vedere distintamente. Mi chiedo se ne è valsa la pena e purtroppo tendo a rispondere no, ci sono tante altre cose che vale la pena vivere. Il rugby è un gioco delizioso, ma forse i giocatori sono trattati come inerti quarti di bue”.

I primi sintomi della demenza sono perdita di memoria, umore altalenante e difficoltà a concentrarsi. Il sospetto è che a causarla, negli sportivi, siano gli scontri ripetuti.

“E’ come la tortura cinese della goccia, avete presente? –spiega il 41enne Alix Popham, nazionale gallese a inizio anni ‘2000 e anche lui sofferente di sintomi di demenza precoce- Dip, dip, dip… le singole gocce non sembrano fare niente, ma dopo anni ti accorgi che hanno scavato un buco. Così ogni collisione può causare un piccolo danno al cervello, e nel rugby le collisioni sono continue”.
Per essere dannose non debbono neppure riguardare direttamente il capo, spiegano i medici: il cervello si trova come sospeso in un fluido e ogni botta al corpo lo fa ballonzolare con conseguenze che non conosciamo bene ma che si immaginano negative. Per questo motivo anche i caschetti sono a tal riguardo poco utili, poiché proteggono il cranio ma non il cervello.

Cosa fare? Da tempo World Rugby si sta muovendo nella giusta direzione, con le procedure HIA e nuove regole sui placcaggi. Ma questo appare lontano dall’essere sufficiente. Come misure ulteriori, seppur anch’esse parziali, i rugbisti coinvolti nel problema della demenza richiedono un minor numero di cambi in partita (la cosa può suonare paradossale, ma la logica che ne sta alla base è che sono proprio le riserve, che entrano fresche contro atleti indeboliti dalla fatica, a causare gli impatti più pericolosi) e un monitoraggio più costante e capillare dello stato di salute cerebrale dei giocatori.

“Possiamo continuare ad avere il nostro bel rugby –afferma Thompson- ma alcune regole devono cambiare, per renderlo più sicuro”.
“Dobbiamo unirci tutti: ex giocatori, scienziati, professionisti attuali, con la meta comune di rendere il rugby più sicuro –fa eco Popham- perché non voglio che altri rugbisti si ritrovino di fronte alla stessa diagnosi che ho dovuto ascoltare io”.

E’ impossibile al momento avere un quadro preciso e generale della situazione, perché la scienza conosce ancora poco le ragioni della demenza e perché l’ipotesi è che per il rugby i problemi più seri siano iniziati con l’arrivo del professionismo, ed è passato troppo poco tempo da allora per avere una visione fondata dei problemi a lungo termine che l’attività rugbistica può generare: i rugbisti coinvolti nel primo professionismo si trovano ancora nella propria mezza età.
Scrive ancora il Guardian: sappiamo che occorrerà molto coraggio da parte del rugby per affrontare apertamente questi problemi, perché si rischia uno stigma come già accaduto ad esempio ad altri passatempi un tempo considerati innocui come la boxe o il fumo. Sappiamo anche che questi possibili danni vanno bilanciati con gli evidenti benefici psichici e fisici che il rugby, come attività fisica e sociale, apporta ai praticanti e alla comunità. Ma una presa di coscienza pubblica è un passo che va fatto, per rispetto nei confronti dei giocatori.

E in Italia? Non siamo a conoscenza, per nostra ignoranza, di possibili studi effettuati dalla Federazione. Forse la FIR, se non ha già messo in essere operazioni simili, potrebbe tentare come primo approccio un censimento sugli ex azzurri: a che età sono scomparsi quelli che non ci sono più? Di quali disturbi conosciuti soffrivano nel dopo-carriera? Di quali disturbi soffrono eventualmente quelli in vita? Un censimento degli ex nazionali sarebbe meno complesso da effettuare di un censimento capillare di tutti i rugbisti del paese e potrebbe fornire un primo quadro significativo.

www.theguardian.com/sport/2020/dec/08/rugby-union-dark-news-dementia-presents-sport-with-reality-dared-not-face

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