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An italianman in Cardiff (part one)

Scritto da Rugby.it

Racconto semiserio della mia trasferta in terra gallese – Parte Prima

La trasferta in terra gallese va prenotata con buon anticipo. Per pagare meno il volo che, trattandosi di una città non esattamente ben servita (nonostante il suo International Airport), va preso parecchio prima. Io l’ho preso a luglio, perché il tifoso è matto, tanto più quello che va a vedere l’Italia, tanto più quello che va a vedere l’Italia all’ultima giornata del torneo dove storicamente le busse sono tante (ma non pensavo così tante).

Donc: acquisto del volo, poi acquisto del biglietto della partita dal sito di Welsh rugby, anche questo molto molto prima (non dalla Fir? No, all’estero ha sempre dei settori talmente laterali che a volte ti sembra di essere un architrave dello stadio). Poi acquisto della stanza: i prezzi per quei giorni sono improponibili, a meno di andare sull’Isola di Man e poi pagaiare fino al Millennium. Così prendiamo una stanza Airbnb, che sarà una delle sorprese di questa avventura…

Venerdì 18 marzo – The W (Welsh) Day

Il volo, un Flybe, è alle 14, poi si guadagnerà un’ora con il fuso orario. In realtà si guadagnerà mezz’ora, causa il solito ritardo. Temperatura a Cardiff: 15 gradi meno che a Malpensa dove c’era questo bel sole.

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Nella capitale gallese il termometro segna 2 gradi (cioè li segna in Fahrenheit, vi traduco per comodità) e un vento di tramontana (per i geografi e meteorologi che stanno leggendo: non so se è tramontana, tutti dicono “vento di tramontana” quando c’è quel vento freddo secco e pungente) è il primo saluto fuori dall’aeroporto, che in realtà è uno scalo proprio piccino. Dall’aereo scendono solo tifosi italiani (vertici Fir compresi) più un tizio che parla un’imprecisata lingua dell’est o finnica o forse il sardo stretto della Gallura. Mi immagino che sia uno di quei corrieri impegnati a trattare grandi stock di seta o partite di orzo perlato. Insomma uno di quelli che trovi a tarda ora al bar dell’hotel mentre Steve Buscemi serve del doppio gin e ti saluta in bianco e nero solo sollevando il sopracciglio. Per altro il faccendiere si disperde all’uscita dall’aeroporto salendo su una lunga auto azzurra con vetri neri, a questo punto mi viene il sospetto che sia il procuratore di Alvaro Recoba (sì, è l’ultimo giocatore di calcio di quella squadra nera-azzurra che conosco).

Arrivare a Cardiff è semplice: bus T9, ogni 20 minuti, si paga a bordo anche in Euri. 40 minuti e sei in centro: il panorama nel tragitto non è il massimo, del resto Cardiff e retroterra – per quanto posso vedere – dà l’idea di città prettamente operaia e mercantile, fatta di navicanti per cui s’intenerisce il core nell’ora che volge il desio. Città insomma non ricchissima, con case duplicate a carta carbone e un grigio nebbia dovuto alla nebbia, al cielo grigio nebbia e ai muri delle abitazioni e alle tende grigio nebbia, grigio-nebbia, avrete capito, che è un po’ il colore dominante.

Si arriva a Central Station, o per meglio dire, a una laterale di Central Station dove ci sono imponenti lavori ed è un po’ tutto transennato. E praticamente siamo già nel pieno centro di Cardiff. Che non è grande, alcune vie parallele: la primissima impressione non è esaltante (ma tutto cambierà a breve), una città dal centro semi-moderno con tante catene, non tantissima gente in giro. Poco male abbiamo tempo per andare a lasciare la borsa al nostro Airbnb.

Airbnb, stairway to heaven

IMG_6079Beh sì, si risparmia e alla fine sono solo 2 giorni, ma il nostro “luxury attic” era una pietosa soffitta con tetto di 1,70 cm nella parte più alta, 40 cm in quella più bassa e accesso con ripida scala a pioli. Il vostro giocondo redattore esagera? No, usciamo la documentazione fotografica (qui accanto a sinistra mentre si inerpica su ripida scala). La sensazione è quella del rifugiato in fuga dalle Waffen SS nella seconda guerra mondiale ma i tappeti ai soffitti riportano a un clima più prossimo a Theran o a Istanbul (città dove ovviamente non sono stato). Comunque il letto è comodo, il bagno anche se “downstair” ha l’essenziale (doccione e gabinetto), c’è un wi-fi ballerino, fa caldo e il proprietario è un uomo gentilissimo che ti fa anche il tè. Dunque tutto bene.

Ma proseguiamo. Doccia, siamo pronti ad uscire. Chiusi uffici e luoghi di lavoro, diciamo a partire dal venerdì dalle 17, quella città che pareva un poco anonima diventa un animato serbatoio di convivialità.

Ma prima l’intermezzo. Già da casa (pardon, dalla soffitta) si sentiva un romorio di fondo che non si capiva cosa fosse. Girato l’angolo, imbattendosi nel glorioso Arms Park, ci ricordiamo che oggi è il giorno del recupero Cardiff Blues – Munster. E scatta la lacrimuccia perché l’Arms è storia ma subito accanto c’è anche il Millennium, che è un’altra storia. Lo stadio è molto bello, a ridosso del fiume Taff, e fa la sua impressionante figura.

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Cardiff by night (o La grande Babylon)

Passato il ponte (che nella foto non vedete perché sta dietro questa parte di stadio) si entra nel centro di Cardiff. Subito compare St. Mary Street con l’O’Neils (poi ci torno), il primo di una miriade smisurata di pub, locali da ballo, bar, ristoranti. In pratica Cardiff esiste di sera, come una specie di araba fenice che di giorno sonnecchia e la sera esplode.

IMG-20160320-WA0012La quantità di gente in giro fin dalle 18,30 è notevole con proporzionale grado di ubriachi e camminatori storti. Sì, credo che a Cardiff non resti totalmente sobrio nemmeno il priore dell’Abbey o il serioso direttore del centro di studi islamici bengalese.

La cosa appare un po’ strana a noi italici ma fa parte della socialità gallese: uscire, divertirsi, bere tantissimo, conoscersi et al. E vedere gente che balla felice alle 19, tutti i pub con musica dal vivo e poi il dj, un universo bollente di gente di ogni età che sta insieme, si invita a ballare, familiarizza, è veramente meraviglioso. Ma noi da bravi italici prima pensiamo a riempire la panza, e solo dopo alla bevuta. Si cerca un posto “tipico” ma alla fine si finisce attirati – chissà perché – dal “brewery quarter” (qui sopra a sinistra) dove ci sono in realtà un sacco di ristoranti di cucine diverse. Finiamo ad un giapponese (il Wagamama) e mangiamo un giappo un po’ declinato in salsa Mc Donalds + quel tipico riso della mamma nonlodevicuocerecosìtanto (prove documentali qui sotto a sinistra con, sullo sfondo, manica di felpa rossa di cui poi si parlerà nel racconto).

IMG_6095Poco male, atmosfera carina, cameriere carine, un preliminare per la vera Cardiff.

In che pub andare? Il primo criterio di scelta è quello del locale che all’esterno ha meno gente che pare piagata dai fumi alcolici e potenzialmente molesta. Niente di minimamente pericoloso, anche perché ogni locale ha la sicurezza all’esterno e i molti cartelli “no drink for drunk” fanno capire la politica di fondo.

Alla fine finiamo al succitato O’Neill, un posto con un bancone da 150 metri e una selva di spine per birra oltre che una selezione di distillati con nomi sconosciuti. Ottimo, penserete. Ma l’affollamento è talmente enorme (come in ogni locale di Cardiff la sera) che fate fatica anche solo ad avvicinarvi agli spillatori. Per altro c’è anche una spina di Nastro Azzurro e l’orgoglio patrio è salvo (il giorno dopo vedremo in un market anche una confezione di spaghetti dal nome italico, tipo Portorosso, Portogrosso, Portomosso, mai vista sui nostri scaffali, probabilmente di produzione boema).

Comunque si riesce a bere, e parte una di quelle piacevolissime serate dove in poche ore conosci il mondo: i gallesi sono un popolo loquace, caldo, naturalmente amicale, ed è veramente bello starci insieme. Il vostro redattore poi, saranno i fumi dell’alcol collettivo o i pantaloni neri (vedi foto sopra) stile post-Bee Gees, rimedia anche una sonora doppia palpata di chiappa, una visione di una pettoruta 125 kg che ad un certo punto mostra globalmente l’intera mercanzia e un caloroso abbraccio in zona pre-toilet di ringraziamento per aver concesso la precedenza da destra (come da codice pedonale) a una gentile signorina. Diciamo che se sei single (me not) Cardiff è un luogo dove è totalmente impossibile non avere contatti ravvicinati.

La cosa bella è comunque il clima di allegria, scanzonato, tutti ballano e si invitano in modo molto democratico, non viene invitata solo la bellona ma anche la più bruttina o la sciura anziana. La gente ti parla, chiacchiera, ti dice che domani si parte 0-0 (gallesi falsi cortesi?) e che loro ancora soffrono per la partita con l’Inghilterra.

Il potere del Varese 101%

Il vostro redattore quella sera veste la famous felpa rossa 101% Rugby Varese. Essendo rossa e avendoci scritto sopra la parola rugby passa ovviamente per una felpa pro-dragoni. Ma tutti, e intendo tutti, chiedono “what is this Varese?”. E se ai primi 2-3 tenti di rispondere nel tuo inglese maccheronico “My hometown team” “Varese is a town in northern Italy near Milan” dopo un po’, anche grazie all’aiuto delle pinte in corpo, sale l’ironia lumbard e si parte con “Varese, in the seven lakes county” per concludere con un crescendo epico

“Varese, it’s a little town near Newport, founded by italians immigrants from Venice. They came to Wales with gondolas”.

Sta di fatto che anche la felpa diventa elemento identitario di questi 2 matti che sono a seguire la nazionale forse più perdente di sempre. E tutti ce lo dicono, dietro al rispetto (nella seconda puntata episodio su questo) c’è un po’ di pietà per noi ben evidenziato dalla risposta della gentile donna del cambio soldi nel pomeriggio.

“Tomorrow we need a miracle”.

“Oh, sure. The greatest miracle”.

All’O’Neills suonano gli Shameless, rock classico, usciamo a fare un giro, qualche altra boccata in altri locali e poi si richiude il cerchio sempre al pub di partenza, come in un mantra portafortuna per la partita del giorno dopo. Rientro molto tardo verso la soffitta con una bella sensazione gaudiosa stile stairway to heaven lasciataci dagli amici rossi. E domani è The Day…

Leggi la seconda parte del racconto.

joseph K.

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