Ivan, lo zingaro che divenne Accademia a forza di essere vento
E anche quest’anno arriva un altro 19 gennaio; ne sono passati tanti da allora e li leggo tutti sul mio corpo e sulla mia faccia. 18, un dolore ormai maggiorenne, da quello là, maledetto, e in ognuno di essi il tuo ricordo mi ha sempre visitato; una visita dolente e allegra insieme. Dolente quando penso che non ci sei, che non posso pensare di venire a Treviso per fare un salto al tuo “The Players” dopo una partita a farmi un goto e, magari, avere la sorpresa di trovarti lì al bancone; tu, insieme al Piero, i tuoi capelli ed il tuo sorriso. Ma anche una visita allegra, perché allegria era l’aria intorno a te, in campo come fuori. Il migliore di tutti, come dice Marco Paolini, e su questo non si discute. Il più grande talento della storia del nostro rugby: questo lo dico io e anche su questo non accetto discussioni. Perché eri così bravo da non sembrare nemmeno un giocatore italiano, sembravi planato qua da un altro mondo, magari dallo stesso da cui era arrivato il tuo compare della foto sopra. Di nome Ivan, la versione slava (slavo zingaro, capelli al vento, libero, irregolare: Ivan, insomma) di Giovanni, Giovanni che vuol dire dono del cielo: un nome quanto mai azzeccato, visto che sei stato un dono per tutti noi. Di corporatura normale con una faccia da film che sarebbe piaciuta a Emir Kusturica: io ti ricordo così.
Finalmente oggi, dopo 18 anni, grazie a questa piccola scialuppa corsara di Rugby.it (sempre di irregolari si tratta, no?) riesco a trovare l’animo giusto per parlare di te con gli altri, come ogni anno mi capita di fare fra me e me medesimo. Ivan, l’irregolare, con quei capelli ribelli e quella faccia da capo Sioux (infatti oltre che zingaro ti chiamavano anche indiano), ultimo di una meravigliosa schiatta di fenomeni ovali, il più piccolo dopo Bruno, Nello, Rino, Manuel e Luca: tutti Francescato, tutti rugbysti, tutti di Treviso, quell’altra Treviso. Si, perché uno strano come te non poteva certo venir fuori dalla Treviso “giusta”, ma da quell’altra, quella “sbagliata”, dei “rossi”. Rossi come le maglie della Ruggers Tarvisium che aveva come inno “Avanti Ruggers, alla riscossa, maglietta rossa trionferà” sulle note di “Bandiera rossa”. Un anno lì per dire al mondo che c’eri e poi un salto “di là” da quelli ricchi, perché era giusto che il mondo potesse vederlo per bene uno come te.
Mediano di mischia, centro, ala, ma, in fondo, poco importava perché il tuo ruolo in campo era semplicemente quello di essere vento e facevi le stesse assurde e meravigliose cose tue in qualunque posizione decidessero di metterti. Perché a te bastava correre e “schivanellare” per sentirti vivo e libero e per fare felici tutti quelli che avevano la gioia di vedertelo fare. Dal rosso al biancoverde per arrivare finalmente all’azzurro, a quel colore aereo che da sempre stava aspettando qualcuno capace di volare, di fare quella cosa lì: mandare in bambola chi provava a fermare il tuo volo, quella cosa che tu facevi in modo così sublime. E tu mandasti in bambola tutti quelli che volevano tenerci fuori dal club esclusivo di quelli “giusti”. Così, dopo le vittorie italiane, arrivarono quelle internazionali, quelle culminate nella più bella di tutte le imprese, in quel pomeriggio magico di Grenoble che dovette aspettare solo cinque minuti per volare grazie a te. Chi altri, del resto, se non tu, poteva far prendere il volo a quella meravigliosa avventura?
Poi la fortuna invidiosa dovette, probabilmente, decidere di essere stata troppo distratta, avendo permesso ad un irregolare come te di salire così in alto e cominciò a vendicarsi. Prima qualche infortunio, così, per farti lo scherzo più cattivo, tenendoti fuori per periodi interminabili da quel campo in cui sapevi essere unico. E poi impedendoti di partecipare e anche solo di vedere quella festa per la quale avevi conquistato il biglietto di invito: tu, uno di quelli che più lo aveva meritato non riuscisti mai a giocare e neppure vedere un solo match di quel 6 Nazioni azzurro del quale eri stato uno degli artefici. Siccome, testone che sei, non la capivi e continuavi ad ostinarti ad inseguire i tuoi sogni, il destino feroce decise che era giunto il tempo di chiudere i conti con te.
Quel giorno, come tanti altri, ti eri allenato al campo, ma con prudenza, perché quando si deve recuperare da un altro infortunio bisogna starci attenti. Poi via a cena con la tua Silvia e con il compagno-compare di sempre, il Piero; riesco ad immaginarmela la tavolata, doe ciacoe, doi biceri e poi via, verso l’ultimo appuntamento con un placcaggio che, quella volta, è arrivato dal lato cieco. Quando arrivano da dove non vedi i placcaggi sono quelli più duri e più difficili da evitare: perché non te li aspetti mai. E chi poteva aspettarselo un placcaggio così, a 32 anni neanche? I dottori, quelli che ne sanno, dissero che il tuo cuore presentava le caratteristiche di quello di un uomo col doppio dei tuoi anni: chissà, forse perché vivevi e giocavi a velocità doppia di quella di noi tutti. O forse semplicemente perché, anche lì, dovevi essere irregolare.
Sono venuti tutti a salutarti l’ultima volta, una folla enorme, dicono cinquemila persone, chissà, lì alla piccola chiesetta di San Giuseppe, dove sei nato e cresciuto. Sulla tua bara le tue maglie, quella rossa della Ruggers, quella biancoverde del Benetton (la 13, che la tua squadra voleva nessun altro portasse più, ma non glielo hanno lasciato fare per molto) e la 9 azzurra portata da Ale Troncon a cui l’avevi passata anni addietro. E a portarti fuori i tuoi 6 fratelli, che erano i 5 dell’anagrafe insieme, ovviamente, al Piero, fratello di vita. E qui il destino ha voluto essere bastardo fino in fondo perché qualche anno dopo si è preso anche lui, il Piero, al secolo Piermassimiliano Dotto, tuo amico, compagno e compare di sempre, portandoselo via nello stesso bastardissimo modo che aveva usato con te. La federazione ha deciso di intitolare al tuo nome l’Accademia nella quale cerca di far nascere altri come te, e questo è davvero bello. Pensa l’ironia, un’ Accademia, un’istituzione che prende il nome di uno zingaro. Mi sa che ne avresti sorriso. Che poi quelle robe assurde che facevi tu né si insegnano, né si imparano, si nasce così. Però è bello lo stesso pensare che, magari, uno dei ragazzi che entra là dentro e manco sanno chi sei, sia preso dalla curiosità di scoprirti, che oggi è anche più facile. Si, una bella cosa.
Adesso chissà dove corri zingaro. Tanti anni fa, quando Marco Paolini ti conobbe bambino, c’era uno che cantava di aver visto anche zingari felici corrersi dietro, far l’amore e rotolarsi per terra; anch’io ne ho visto uno, e non era felice solo lui, lo erano anche quelli che contagiava con la sua felicità di essere nato per essere sé stesso. E adesso il cuore rallenta e la testa cammina in quel pozzo di piscio e cemento, a quel campo strappato dal vento, a forza di essere vento…
jpr